Una sorta di valutazione di medio termine, rispetto ai sei mesi concessi dallo Stato per chi decide di voltare le spalle alla mafia, che ha spinto gli inquirenti a fare una valutazione rigorosa, draconiana: così come stanno le cose, risulta difficile portare Francesco Schiavone in un’aula di giustizia, nel corso dei processi a carico di presunti colletti bianchi in odore di mafia o di presunti killer sanguinari. Da quanto trapelato finora, in questi novanta giorni da pentito, l’ex boss dei casalesi ha fornito dichiarazioni poco efficaci. Mancherebbero i requisiti della attualità e della novità. Due aspetti decisivi per chi si affaccia alla svolta collaborativa dopo aver rappresentato per anni – anche con una buona dose di orgoglio – una sorta di polo negativo, una forma di antistato in guerra con le istituzioni democratiche.
Nato a marzo del 1970, cresciuto sotto il profilo criminale all’indomani dell’omicidio di Bardellino (capo della Nuova famiglia che sarebbe stato ucciso in Brasile) e dell’alleato Mario Iovine (ucciso dai rivali dei casalesi a Cascais all’inizio degli anni Novanta), Schiavone è stato arrestato a luglio del 1998. Da allora, è stato processato e condannato all’ergasto diverse volte, sempre come mandante e organizzatore di omicidi, oltre ad essere indicato – nella ormai famosa sentenza Spartacus – come uno dei più potenti boss della camorra campana. Conosciuto come «Sandokan» per quella barba che gli incorniciava il viso, Francesco Schiavone è stato spesso protagonista nel corso delle udienze che lo hanno visto imputato numero uno. Durante il processo in assise appello chiese di lasciare l’aula, rifiutandosi di partecipare all’udienza in videoconferenza, di fronte ai tanti giornalisti accorsi per assistere alle fasi clou del processo.
Il Mattino